Appesi, in ordine sparso: Socrate, Aristotele, Cartesio, Jean-Jacques Rousseau, Franz Kafka, Barack Obama e una manciata di santi di quelli che contano in quanto a fede ma anche a filosofia (di vita) come San Francesco d'Assisi, San Benedetto, Sant'Agostino. Ci guardano con occhi benevoli dalle cornici sul muro piazzate dietro la scrivania di Brunello Cucinelli. Lui li chiama "i miei pensatori" e li tratta con lo stesso amichevole rispetto di chi si rivolge a uno zio saggio cui chiedere consigli e, visto che ci siamo, anche una benedizione.Siamo nella sua torre-studio a Solomeo, borgo medievale di bellezza tanto fiabesca da dare nuovo vigore all'aggettivo "disneyano". Dal 1985, lo ha completamente ristrutturato a sue spese anche per ragioni sentimentali («ci è nata mia moglie, Federica»), arricchito di un teatro inaugurato nel 2008 con un cartellone degno del Piccolo di Milano. Ora si è occupato del restauro dell'arco Etrusco di Perugia, comune di cui fa parte Solomeo. All'ingresso della torre, su una placca di ceramica, ha fatto dipingere una massima: «Mi sento responsabile della bellezza del mondo». È tratto da Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar. Probabilmente questo lo preoccupa di più che non convincere gli investitori («ma vorrei chiamarli "soci"») ora che ha deciso di quotare il suo marchio alla Borsa di Milano. Dalla sua parte giocano i numeri: dal 2009, anno della crisi, ha aumentato i dipendenti, il fatturato (+18% nel 2011), gli utili (+62% dopo il raddoppio del 2010) e gli investimenti (+100%, circa 15 milioni) continuando ad aprire negozi in tutto il mondo. Ma soprattutto "il signor Brunello", come lo chiamano tutti qui, non ha mai diminuito il suo quoziente di fede nell'imprenditoria coniugata alla filosofia: il risultato è una moda di gusto e qualità a livelli stellari (come i prezzi) che lo hanno incoronato "King of Cashmere" sui giornali di tutto il mondo. Inoltre l'imprenditore umanista è il sogno di qualsiasi giornalista: basta fargli una domanda e - come diciamo noi - "si scrive il pezzo da solo".Merito di un'eloquenza che non ha pari tra i suoi colleghi: a 58 anni, ne dimostra dieci di meno e parla con voce spietatamente pacata nel silenzio verde della campagna interrotto solo dal rintocco del campanile. E dal suono lieve lieve delle sue operose dipendenti.
Perché ha deciso di approdare a Piazza Affari?
Perchè le aziende non si ereditano. Anzi, non si eredita proprio niente, se non la proprietà privata. Non la capacità di fare impresa: non o detto che il figlio di un bravo medico lo diventi anche lui. Quindi si ha il dovere di immaginare come la propria azienda possa vivere nel futuro, anche quando non ci sarà più chi l'ha fondata. C'è una domanda che ogni imprenditore dovrebbe porsi: «Ti senti piùcustode o proprietario di quel che hai?». Se ti senti custode e non padrone, tutto diventa quasi eterno. Allora preferisci restaurare anzichè costruire, perchè pensi in una prospettiva diversa, mediti sul concetto di abbellimento dell'umanità. Ho sempre pensato che le industrie abbiano una missione precisa: fare programmi di sviluppo che guardino a un futuro lontano, anzi lontanissimo. Oggi non è così: una volta c'era l'industria da una parte e la finanza dall'altra. Invece di camminare di pari passo, avendo grande rispetto l'una per l'altra ma anche una certa distanza, la finanza ha invaso troppo l'industria e l'industria ha fatto troppa finanza. E poi, l'altra ragione o che ci aspetta un mondo tutto nuovo, bel-lis-si-mo (lo dice così, con il corsivo e la sillabazione nella voce). La vedo perplesso (vero, ndr). Le faccio una premessa: ho sempre voluto lavorare per la dignità dell'essere umano. Ho vissuto i primi quindici anni della mia vita in campagna. I miei genitori erano contadini e non li ho mai visti litigare neanche una volta. Poi siamo andati a vivere in città e quando mio padre o andato a fare l'operaio specializzato, tornava a casa offeso, triste, avvilito. Non si lamentava del salario, ma di come lo trattavano. Ero un ragazzino che ribolliva di rabbia. Mi sono ripromesso che, qualunque cosa avessi fatto, sarebbe stata nella direzione di alleviare la durezza del lavoro. Per fortuna, al bar incontroImmanuel Kant. Le spiego: per dieci anni sono andato al bar del paese. Eravamo tutti maschi, tranne Lella, la mia amica che ora è morta e siccome faceva la prostituta, smetteva a mezzanotte e ci raggiungeva tardi. Si discuteva di donne, calcio, sesso, religione, politica, teologia, giustizia, non sempre in quest'ordine. Erano conversazioni fantastiche. C'era un ragazzo che faceva il liceo, io frequentavo l'istituto per geometri. Ogni sera mi raccontava delle sue lezioni e una sera mi cita una frase pazzesca: «Due cose soddisfano la mia mente: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». E allora ho capito, a 18 anni, che la legge morale il mio babbo ce l'aveva dentro da sempre anche se non aveva studiato – mi diceva: «Guai a te se non ti comporti bene!», «Guai a te se non rispetti la parola data!». Il mio ateneo è stato il bar. Senza saperlo, si faceva quella che Eraclito chiama polémos. Che meraviglia, quelle polemiche! Un garbo, un'educazione... Doti che abbiamo perduto. Io non mi permetto di giudicare l'operato di nessuno, ma cerco semmai di coinvolgerti nel mio, di ragionamento. Ti ascolto e poi tento di convincerti a venire dalla mia parte: questa o la vera polemica. E io ho voluto ricreare qui il mio bar, la mia agorà, la mia piazza rinascimentale, il mio Foro Romano. Faccio parte di un gruppo di amici sessantenni, io sono il più giovane. Tre sere a settimana andiamo a giocare a calcio, ogni quindici giorni andiamo a casa mia, ci mettiamo in cucina e stabiliamo un tema di conversazione: la morte, la perdita delle persone care, quello che ci aspetta, l'ambiente. Due mesi fa abbiamo affrontato il tema della vecchiaia e io ho regalato a tutti, prima, L'Arte dell' invecchiare di Cicerone perché mi sento un neonato della terza età, sono ancora agli inizi. Come curare il male dell'anima che ti corrode quando realizzi che devi morire? Con la filosofia. San Benedetto, questo santo affascinante, raccomanda all'abate, quale responsabile in vita e dopo la morte dei suoi monaci, di essere «rigoroso e dolce, esigente maestro, amabile padre». C'è un problema da affrontare che, a mio avviso, rimane sempre aperto: il rapporto tra il datore di lavoro e le persone che collaborano con lui. Mio padre non sapeva niente del suo datore di lavoro, lo vedeva arrivare da lontano con il macchinone da ricco e l'autista. Oggi tutti possono sapere tutto di te e della tua vita: può non piacere, ma è così. È il periodo storico in cui ci sono meno guerre. Per la prima volta si fanno rivoluzioni in nome della normalità: i giovani scendono nelle piazze con cartelli che proclamano "libertà" e "giustizia". C'è aria di conciliazione, la si sente. Si stanno affacciando nuovi protagonisti sulla scena mondiale: sono anni e anni che vado in Cina e ora quelli che vivevano in condizioni miserevoli campano in maniera dignitosa. Stiamo riorganizzando un altro Rinascimento. Veniamo da un ventennio in cui la scienza, la ragione, le statistiche dovevano aver ragione su tutto. Pascal dice che «il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende». Ecco perché le dico che in questo mondo sta per arrivare un nuovo Umanesimo che sposi un nuovo Romanticismo. Come metto insieme questa convinzione con la fiducia nel capitalismo? Aspiro al profitto, ogni impresa deve produrne, è la ragione della sua esistenza. Il punto è: com'è generata? Solo con l'etica, la dignità e la morale. Camilla, mia figlia grande, ha 29 anni e divora i giornali. Carolina ne ha 20 e guarda solo l'iPad. Mi dice: «Ho visto un paio di pantaloni bellissimi in un negozio low cost a 19 euro. Per guadagnarci, quanto avranno pagato chi li ha fatti?». Non li ha comprati. Dicono che i miei capi siano cari: preferisco definirli "costosi". Ma durano per anni, e mi piace pensare che chi li compra sappia che una parte andrà alla signora che rifinisce a mano i polsi, una parte al mantenimento del borgo, una parte al teatro… Quando i miei amici industriali mi dicono: «Vado a produrre in India, in Romania!», gli rispondo con una risata che non li accompagnerò. A me non angoscia dover pagare più tasse o vivere con leggi più dure di qualche anno fa. Però voglio che i miei guadagni vadano a buon fine. Pretendo che torni la buona educazione, anche da voi giornalisti. Se le prime sei righe di un articolo che mi riguarda sono sgarbate, il resto non lo leggo proprio (improvviso, un brivido). L'altra sera ho dovuto buttare un mio pullover che aveva più di vent'anni. Stavo per gettarlo via, quando ho detto a Federica: «Usiamolo per lucidare l'argento». E anche questo rientra nel concetto di custodia. Per me, si tratta di vivere giustamente.
Perchè le aziende non si ereditano. Anzi, non si eredita proprio niente, se non la proprietà privata. Non la capacità di fare impresa: non o detto che il figlio di un bravo medico lo diventi anche lui. Quindi si ha il dovere di immaginare come la propria azienda possa vivere nel futuro, anche quando non ci sarà più chi l'ha fondata. C'è una domanda che ogni imprenditore dovrebbe porsi: «Ti senti piùcustode o proprietario di quel che hai?». Se ti senti custode e non padrone, tutto diventa quasi eterno. Allora preferisci restaurare anzichè costruire, perchè pensi in una prospettiva diversa, mediti sul concetto di abbellimento dell'umanità. Ho sempre pensato che le industrie abbiano una missione precisa: fare programmi di sviluppo che guardino a un futuro lontano, anzi lontanissimo. Oggi non è così: una volta c'era l'industria da una parte e la finanza dall'altra. Invece di camminare di pari passo, avendo grande rispetto l'una per l'altra ma anche una certa distanza, la finanza ha invaso troppo l'industria e l'industria ha fatto troppa finanza. E poi, l'altra ragione o che ci aspetta un mondo tutto nuovo, bel-lis-si-mo (lo dice così, con il corsivo e la sillabazione nella voce). La vedo perplesso (vero, ndr). Le faccio una premessa: ho sempre voluto lavorare per la dignità dell'essere umano. Ho vissuto i primi quindici anni della mia vita in campagna. I miei genitori erano contadini e non li ho mai visti litigare neanche una volta. Poi siamo andati a vivere in città e quando mio padre o andato a fare l'operaio specializzato, tornava a casa offeso, triste, avvilito. Non si lamentava del salario, ma di come lo trattavano. Ero un ragazzino che ribolliva di rabbia. Mi sono ripromesso che, qualunque cosa avessi fatto, sarebbe stata nella direzione di alleviare la durezza del lavoro. Per fortuna, al bar incontroImmanuel Kant. Le spiego: per dieci anni sono andato al bar del paese. Eravamo tutti maschi, tranne Lella, la mia amica che ora è morta e siccome faceva la prostituta, smetteva a mezzanotte e ci raggiungeva tardi. Si discuteva di donne, calcio, sesso, religione, politica, teologia, giustizia, non sempre in quest'ordine. Erano conversazioni fantastiche. C'era un ragazzo che faceva il liceo, io frequentavo l'istituto per geometri. Ogni sera mi raccontava delle sue lezioni e una sera mi cita una frase pazzesca: «Due cose soddisfano la mia mente: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». E allora ho capito, a 18 anni, che la legge morale il mio babbo ce l'aveva dentro da sempre anche se non aveva studiato – mi diceva: «Guai a te se non ti comporti bene!», «Guai a te se non rispetti la parola data!». Il mio ateneo è stato il bar. Senza saperlo, si faceva quella che Eraclito chiama polémos. Che meraviglia, quelle polemiche! Un garbo, un'educazione... Doti che abbiamo perduto. Io non mi permetto di giudicare l'operato di nessuno, ma cerco semmai di coinvolgerti nel mio, di ragionamento. Ti ascolto e poi tento di convincerti a venire dalla mia parte: questa o la vera polemica. E io ho voluto ricreare qui il mio bar, la mia agorà, la mia piazza rinascimentale, il mio Foro Romano. Faccio parte di un gruppo di amici sessantenni, io sono il più giovane. Tre sere a settimana andiamo a giocare a calcio, ogni quindici giorni andiamo a casa mia, ci mettiamo in cucina e stabiliamo un tema di conversazione: la morte, la perdita delle persone care, quello che ci aspetta, l'ambiente. Due mesi fa abbiamo affrontato il tema della vecchiaia e io ho regalato a tutti, prima, L'Arte dell' invecchiare di Cicerone perché mi sento un neonato della terza età, sono ancora agli inizi. Come curare il male dell'anima che ti corrode quando realizzi che devi morire? Con la filosofia. San Benedetto, questo santo affascinante, raccomanda all'abate, quale responsabile in vita e dopo la morte dei suoi monaci, di essere «rigoroso e dolce, esigente maestro, amabile padre». C'è un problema da affrontare che, a mio avviso, rimane sempre aperto: il rapporto tra il datore di lavoro e le persone che collaborano con lui. Mio padre non sapeva niente del suo datore di lavoro, lo vedeva arrivare da lontano con il macchinone da ricco e l'autista. Oggi tutti possono sapere tutto di te e della tua vita: può non piacere, ma è così. È il periodo storico in cui ci sono meno guerre. Per la prima volta si fanno rivoluzioni in nome della normalità: i giovani scendono nelle piazze con cartelli che proclamano "libertà" e "giustizia". C'è aria di conciliazione, la si sente. Si stanno affacciando nuovi protagonisti sulla scena mondiale: sono anni e anni che vado in Cina e ora quelli che vivevano in condizioni miserevoli campano in maniera dignitosa. Stiamo riorganizzando un altro Rinascimento. Veniamo da un ventennio in cui la scienza, la ragione, le statistiche dovevano aver ragione su tutto. Pascal dice che «il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende». Ecco perché le dico che in questo mondo sta per arrivare un nuovo Umanesimo che sposi un nuovo Romanticismo. Come metto insieme questa convinzione con la fiducia nel capitalismo? Aspiro al profitto, ogni impresa deve produrne, è la ragione della sua esistenza. Il punto è: com'è generata? Solo con l'etica, la dignità e la morale. Camilla, mia figlia grande, ha 29 anni e divora i giornali. Carolina ne ha 20 e guarda solo l'iPad. Mi dice: «Ho visto un paio di pantaloni bellissimi in un negozio low cost a 19 euro. Per guadagnarci, quanto avranno pagato chi li ha fatti?». Non li ha comprati. Dicono che i miei capi siano cari: preferisco definirli "costosi". Ma durano per anni, e mi piace pensare che chi li compra sappia che una parte andrà alla signora che rifinisce a mano i polsi, una parte al mantenimento del borgo, una parte al teatro… Quando i miei amici industriali mi dicono: «Vado a produrre in India, in Romania!», gli rispondo con una risata che non li accompagnerò. A me non angoscia dover pagare più tasse o vivere con leggi più dure di qualche anno fa. Però voglio che i miei guadagni vadano a buon fine. Pretendo che torni la buona educazione, anche da voi giornalisti. Se le prime sei righe di un articolo che mi riguarda sono sgarbate, il resto non lo leggo proprio (improvviso, un brivido). L'altra sera ho dovuto buttare un mio pullover che aveva più di vent'anni. Stavo per gettarlo via, quando ho detto a Federica: «Usiamolo per lucidare l'argento». E anche questo rientra nel concetto di custodia. Per me, si tratta di vivere giustamente.
Per la seconda volta: perché ha deciso di approdare a Piazza Affari?
In Italia il 90 per cento delle imprese familiari muoiono con il loro fondatore. Alla mia, non voglio che succeda.
In Italia il 90 per cento delle imprese familiari muoiono con il loro fondatore. Alla mia, non voglio che succeda.
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